Le sfide della transizione energetica

Le sfide della transizione energetica
La transizione energetica da un sistema non sostenibile e che fa affidamento sui combustibili fossili a uno completamente green è realtà e sta accadendo. A che velocità e se ci arriveremo mai, senza fermarci a metà strada, questo è più difficile dirlo.

Da una parte l’attenzione di grandi paesi consumatori di energia, dagli Stati Uniti all’Unione Europea, dei produttori, come E.ON o ENEL, e anche dei singoli consumatori domestici va nella direzione della sostenibilità. Dall’altra, la realtà contraddice spesso gli impegni e le dichiarazioni: l’aumento delle emissioni annuali cinesi è uguale a quanta CO2 emette l’Italia, e l’amministrazione Obama ha visto buona parte del proprio successo economico dovuta allo sfruttamento di risorse fossili e particolarmente inquinanti, shale gas e shale oil. Il cambiamento di paradigma energetico è però necessario, non solo per motivi di sostenibilità climatica e ambientale, ma anche economica: un paese come l’Italia, che importa oltre l’82% dell’energia che consuma, sa bene che l’indipendenza dai combustibili fossili rende un paese più stabile e sicuro, riducendo i costi dell’energia (e non solo). Bisogna però comprendere quali siano le barriere a questo cambiamento, e avere la volontà di affrontarle.

I segnali di cambiamento dimostrano che questo desiderio potrebbe esistere, ora come non mai. Quando la compagnia energetica tedesca E.ON annunciò il disinvestimento dalle fonti fossili lo scorso 30 novembre, le parole del’AD Johannes Teyssen suonavano epocali:

“Siamo convinti che sia necessario rispondere ai mercati dell’energia mondiali, trasformati radicalmente, all’innovazione tecnologia e alle differenti aspettative dei consumatori con un nuovo, coraggioso inizio. L’ampio modello di business di E.ON al momento non può più rispondere adeguatamente a queste nuove sfide.”

Leggere queste parole da parte di una compagnia che solo in Italia possedeva 4500 megawatt di generazione a carbone e gas fa particolarmente effetto, così come vedere l’AD di Enel Starace stringere la mano al direttore esecutivo di Greenpeace Kumi Naidoo. Così come per le compagnie, anche per i governi l’impegno e le priorità sulla transizione energetica stanno attraversando una fase di grande cambiamento proprio in questi ultimi anni. Nel 2001 George W. Bush rifiutava di ratificare il protocollo di Kyoto sul cambiamento climatico che gli Stati Uniti avevano firmato quattro anni prima. Nel 2014, Obama e il presidente cinese Xi Jinping hanno firmato un accordo per la riduzione di emissioni dal valore storico. Prima del Trattato di Lisbona del 2007 l’idea di un obiettivo europeo per le rinnovabili o l’efficienza energetica era, nel migliore dei casi, un sogno ambizioso. Il 23 ottobre 2014 il Consiglio europeo ha confermato gli obiettivi del 27% per tutti e due i settori per il 2030, dopo l’approvazione di quelli per il 2020 nel 2009, e il 19 marzo ha dato il via libera all’Unione Energetica, che potrebbe essere lo strumento europeo per la transizione energetica.

Il riferimento più esplicito a questo cambiamento di paradigma viene però dal movimento #divest, il cui obiettivo è il disinvestimento nei combustibili fossili secondo il modello dei campus universitari, governi e istituzioni locali che disinvestirono nelle compagnie che operavano in Sudafrica durante l’apartheid. L’attività del movimento indica quanto i combustibili fossili siano fittamente intrecciati con l’economia mondiale: tra chi ha promesso o completato il divestment ci sono più di settanta istituzioni religiose, tra cui la Church of Sweden che ha ora quasi settecento milioni di dollari in assets senza combustibili fossili, città come Oslo, San Francisco o Londra, che dovrà ricollocare oltre sette miliardi di euro, università come Stanford o Glasgow, fondazioni e molto altro. Un totale di oltre cinquanta miliardi di dollari già disinvestiti, che vede tra gli attori coinvolti anche chi ha fatto la propria colossale fortuna con il petrolio: i Rockfeller, che pochi giorni fa hanno dichiarato che il disinvestimento dai combustibili fossili sia un dovere morale.

Se qualcosa sta cambiando, non vuol dire però che sia cambiato. Anzi, spesso l’impegno è forte, ma l’ipocrisia di più. E’ il caso ad esempio della Bill & Melinda Gates Foundation, la più grande fondazione privata al mondo e che, con oltre 43 miliardi di dollari a disposizione, sostiene che il cambiamento climatico sia un problema particolarmente importante che tutti noi affrontiamo, in particolare le persone povere nei paesi in via di sviluppo, ed elogiamo il lavoro che altri stanno facendo per trovare soluzioni in questo settore. Molto corretto l’utilizzo di “altri”, visto che la fondazione ha almeno 1,4 miliardi di dollari investiti nelle maggiori compagnie petrolifere, tra cui la BP, responsabile del disastro ambientale del Golfo del Messico.

L’altro lato della medaglia del cambiamento di paradigma è evidente anche nelle statistiche. La Germania è stata tra i primi a coniare il termine transizione energetica, la cui traduzione tedesca Energiewende è apparsa già negli anni ’80, e nei primi 2000 è stato usata ufficialmente nelle politiche energetiche del paese. Peccato che un paese così devoto alle rinnovabili produca ancora il 44% della sua energia dal carbone. Nel 2012 i 28 Stati Membri pianificavano 67 nuove centrali a carbone. Nel 2014 solo 19 erano effettivamente in realizzazione. Da sole però emetteranno tanta CO2 quanta l’intera Italia. Non scordiamo poi che il recente fervore americano nei confronti del cambiamento climatico, confermato dalla strenua opposizione dei Democratici all’oleodotto Keystone XL, segue anni di noncuranza della stessa amministrazione Obama, tra i responsabili del fallimento delle negoziazioni per il clima a Doha e Copehagen.

In questo andamento contraddittorio della transizione energetica, chi si oppone e quali siano gli interessi in gioco è in realtà un mix complesso di politica, economia e tecnologia che forse può essere identificato in tre aree: la definizione della transizione, il revival delle fonti fossili e l’atteggiamento degli attori coinvolti.

Una transizione, ma verso dove?

Il cambiamento di paradigma energetico affronta, tra le sue più grandi difficoltà, quella della definizione del nuovo paradigma stesso. Un periodo di mutamento e di nuove necessità richiede nuove soluzioni, ma non è ancora chiaro quali debbano essere.

La transizione non deve essere, innanzitutto, sostenibile solo dal punto di vista ambientale, ma anche da quello economico e sociale. In questa discussione si colloca bene il cosiddetto Energy Trilemma, una definizione creata dal World Energy Council (WEC) per indicare il raggiungimento di una fornitura di energia che sia allo stesso tempo stabile, economica e con il minimo impatto sull’ambiente. Un obiettivo valido, ma per cui non esiste una ricetta definitiva. Un ottimo esempio ne è l’UE, che ha spesso dovuto lottare con visioni eterogenee del cambiamento, a causa di diversi interessi, caratteristiche o semplicemente visioni degli Stati Membri. La Germania vede la transizione con un focus particolare sulle rinnovabili e sull’efficienza energetica. Non a caso, visto che possiede i leader mondiali per produzione di pale eoliche (Nordex, Repower, Fuhrländer ed Enercon) e pannelli solari (SolarWorld, Q-Cells e Conergy), e che è stata nominata dall’American Council for an Energy-Efficient Economy (ACEEE) prima per efficienza energetica tra i paesi considerati per molti anni. I paesi dell’Est e del Centro Europa vorrebbero una transizione più soft, in cui prima di passare dai combustibili fossili alle rinnovabili si passi dal carbone al gas. Il Regno Unito, strangolato da una crisi energetica dovuta alla scarsa capacità di generazione, vuole gas e nucleare per sostenere la competitività che sta recuperando (è l’economia più in crescita di tutto il G7).

Spesso anche l’aspetto tecnologico non è chiaro, e la transizione energetica affronta delle domande ancora insolute: possiamo includere nucleare e gas per un futuro sostenibile? Quanto costano davvero le rinnovabili? Il nucleare è una risorsa a emissioni zero, con una fornitura meno critica di quella degli idrocarburi. Il gas è un’ottima soluzione per l’intermittenza delle rinnovabili. Il primo però ha il problema, ancora largamente insoluto, dei rifiuti, mentre il secondo, pur emettendo il 45% in meno del carbone e il 30% del petrolio, rimane comunque un combustibile fossile. Il costo totale delle rinnovabili e i benefici, infine, sono tutt’altro che chiari e possono cambiare non solo in base alla tecnologia, ma anche dal contesto in cui gli impianti vengono costruiti, dall’interconnessione con altri paesi, dall’aspetto finanziario, dalla coerenza e dalla qualità delle regolazioni o addirittura dal modo in cui vengono calcolati. Elementi che potrebbero far salire il costo di rinnovabili come il solare fino al 50% in più.

Tutto questo non conta poi fattori che impattano sulla sostenibilità ma che spesso non vengono presi in considerazione, come lo smaltimento o l’intensità energetica nella produzione dei pannelli solari. Il paradosso è particolarmente forte quando le emissioni che vengono risparmiate nella generazione di energia vengono superate dal costo in CO2 della produzione dei pannelli in paesi, come la Cina, particolarmente dipendenti dai combustibili fossili. Soluzioni che spesso vengono presentate come una possibile soluzione rivoluzionaria in futuro lasciano dubbi sulla loro sostenibilità, come nel caso dell’energy storage che risolverebbe il problema dell’intermittenza delle rinnovabili: non bisogna sottovalutare il costo di costruire e di smaltire batterie grandi come un palazzo.

L’incertezza del futuro, la sicurezza del passato

Nel frattempo, i combustibili fossili stanno attraversando una fase di rinnovato interesse. La shale revolution, ora più una oil che una gas revolution, ha portato gli Stati Uniti a produrre più petrolio dell’Arabia Saudita la scorsa estate, e il miraggio dell’indipendenza energetica del paese si fa reale. Prima ancora di esportare idrocarburi nel resto del mondo, l’aumento della produzione e la diminuzione delle importazioni negli Stati Uniti ha liberato sul mercato cinque milioni di barili al giorno di offerta. Di fronte alla decisione dell’Arabia Saudita di non restringere la produzioni, il prezzo è ora ai minimi dal 2009 e con previsioni al ribasso, almeno nel breve termine. L’abbondanza di petrolio ha poi reso il carbone americano più abbondante, portando a quella “scomoda rinascita” dei combustibili solidi di cui molti, tra cui anche l’International Energy Agency (IEA), parlavano almeno fino all’anno scorso.

La rinnovata economicità dei combustibili fossili ha portato a una svolta nelle politiche di molti governi, che hanno riconsiderato il proprio energy mix futuro e, in questo senso, la propria visione di transizione energetica. Il Regno Unito, sostenitore della lotta al cambiamento climatico, è anche supporter dello shale gas. L’Italia, che ha speso fino a dodici miliardi all’anno per le rinnovabili, ha sottolineato l’importanza delle risorse fossili nazionali nella Strategia Energetica Nazionale (SEN) dell’anno scorso. Leggendo le conclusioni del Consiglio europeo dello scorso 19 marzo, è stata marcata tanto l’importanza di rinnovabili ed efficienza energetica, quanto, se non di più, la libertà di ciascun Stato Membro di decidere il proprio mix energetico. In altre parole transizione energetica sì, ma ciascuno a modo proprio e senza dimenticare i combustibili fossili, né ora né tra vent’anni.

Imprese, governi e cittadini e l’inerzia del sistema

Se il contesto della transizione è di rado ideale, le caratteristiche degli attori coinvolti incrementano l’inerzia di un sistema già lento.

Fare tutto e, allo stesso tempo, ottenere nulla è, tra gli altri, un difetto comune dei governi, che spesso sono più coinvolti negli idrocarburi di quanto le politiche per le rinnovabili facciano credere. L’efficacia delle politiche per le rinnovabili in Italia, ad esempio, è stata ridotta dalla dispersione dei fondi sia nel numero dei progetti che nelle fonti stesse. Risorse più testate, come l’eolico, sono state affiancate ad altre dallo stadio di sviluppo ancora embrionale e dalla maggiore difficoltà di controllo, come il biogas. Ancora più grave però è l’ammontare dei sussidi alle fonti fossili: secondo il World Energy Outlook dell’IEA ammontavano a 548 miliardi di dollari nel 2013, quattro volte quelli per le rinnovabili o l’efficienza energetica. In Germania, la quota maggiore di sussidi all’energia, oltre due miliardi, era per il carbone. Difficile determinare quanto sia per assicurare una transizione armoniosa e giusta, e quanto per tenere in piedi il sistema esistente.

Il problema dell’energia è che poi è spesso guidata da decisioni che hanno al centro la politica, ma che hanno poche considerazioni ambientali o economiche all’interno. Il South Stream, il controverso gasdotto che avrebbe dovuto portare il gas russo passando dal Mar Nero fino in Italia e in Europa e in cui anche ENI era coinvolta, aveva come obiettivo quello di scavalcare l’Ucraina, e il gas che sarebbe arrivato nell’UE sarebbe stato per larga parte quello che avrebbe comunque ricevuto tramite i gasdotti esistenti. Il cambiamento di un sistema energetico comporta poi un orizzonte temporale particolarmente lungo, che mal si adatta allo short termism di governi che difficilmente riescono a pianificare oltre le elezioni successive. Il rischio blackout del Regno Unito non è una novità, e l’ex primo ministro Blair commissionò un report su questo già nel 1997, a cui seguirono molti altri. L’incapacità di pianificare sul lungo termine ha permesso alle sei compagnie che controllano l’energia nel paese, le Big Six, di aumentare i propri profitti del 410% in quattro anni (2008-2012), ed ora il paese è costretto a prendere misure di emergenza, come la costruzione della centrale nucleare di Hinkley Point C. Un affare da 24 miliardi di euro per la francese EDF, a cui sarà garantito un prezzo dell’energia doppio rispetto al valore di mercato per i prossimi 35 anni.

Non che le compagnie dell’energia siano immuni da questa attenzione al breve termine. La diversificazione delle imprese petrolifere, ad esempio, è ai minimi storici: BP ha chiuso nel 2011 il suo business solare perché lo credeva poco profittevole. Chevron ha invece ceduto lo scorso settembre la sussidiaria Chevron Energy Solutions, che gestiva progetti rinnovabili chiaramente redditizi (anche nello slogan “profitable renewable energy”). Una situazione che mostra l’interesse ad una redditività immediata e non verso un “piano b”, con l’eccezione forse di Total.

La situazione riguardo al potere d’influenza delle grosse compagnie energetiche è migliorata rispetto al passato, ma questa ancora incombe, sia sui paesi occidentali che, soprattutto, in quelli dove l’accountability di queste è bassa o nulla. Solo negli ultimi anni Shell ha iniziato a pagare per i crimini ambientali commessi in Nigeria, ma molte altre situazioni sono ancora taciute. Molte imprese hanno poi ancora partecipazioni da parte dello stato di appartenenza, come l’ENI o la francese EDF, e questo pregiudica l’indipendenza delle politiche nazionali. La disponibilità finanziaria stessa delle compagnie gli permette un’influenza spesso sottovalutata. L’American Petroleum Institute ha speso sette milioni di dollari nel 2012 per fare lobbying a funzionari del governo statunitense, ma ottantacinque milioni per le relazioni pubbliche e pubblicità. Nel 2014 la lobby statunitense per petrolio e gas ha speso (ufficialmente) oltre 141 milioni di dollari, al quarto posto tra i 121 settori analizzati su OpenSecrets e sette volte tanto quella per le risorse alternative.

A tutto questo si aggiunge poi la difficoltà del costruire la consapevolezza energetica dei cittadini, per affiancare al quadro macro delle politiche quello micro degli individui. Al momento, la politica energetica rimane ancora un argomento da specialisti, la cui competenza è riservata ai policy maker e su cui la conoscenza generale è molto limitata. In Europa è quasi impossibile scegliere un fornitore di energia sulla base della fonte da cui la produce, e la liberalizzazione stessa del mercato è ancora all’inizio in molti Stati Membri, sia a livello legislativo, con l’incompleta implementazione del Terzo Pacchetto per l’Energia europeo, che pratico. Paesi come la Francia o l’Italia che hanno già in vigore la legislazione europea hanno comunque uno switching rate, la percentuale di cambiamento del proprio fornitore di energia, molto basso. Senza un diretto contatto con i cittadini la politica energetica segue un approccio dall’alto che potrebbe non stimare con efficacia il bonus green che i consumatori sono disposti effettivamente pagare per l’energia rinnovabile. Un problema che crea situazioni di incomprensione e disinformazione, come nel caso dei cittadini britannici che sovrastimano i sussidi per l’eolico di quattordici volte.

La transizione energetica sta accadendo, ma ad una velocità che non sappiamo ancora distinguere. Eppure, una serie di fattori indicano la necessità che questa accada il prima possibile. Dopo il fallimento di Kyoto e l’inconcludente politica climatica mondiale degli ultimi anni, è necessario che la conferenza di Parigi sul clima di questo novembre porti a un accordo per la riduzione delle emissioni. Senza però l’impegno per la transizione energetica, potrebbero mancare gli strumenti per metterlo in pratica. Per altri paesi, come l’Italia, il cambiamento di paradigma è una questione di sicurezza energetica e di costo: i prezzi degli idrocarburi sono bassi, ma anche molto variabili. E la variabilità ha un costo per il sistema industriale e per quello energetico, soprattutto quando l’incertezza è annuale o mensile, mentre la pianificazione viene fatta per decenni a venire.

Fondamentale è cambiare l’approccio all’energia, da un punto di vista tecnico e settoriale, a uno olistico: l’energia è alla base tanto della geopolitica, che delle politiche ambientali o dei consumi individuali. Comprendere questo è capire che la transizione energetica mondiale è una transizione che riguarda tutto e tutti.

Lorenzo Colantoni
@colanlo



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