Shell smantellerà le sue piattaforme petrolifere nel Mare del Nord
Shell si avvia a smantellare le sue quattro gigantesche piattaforme petrolifere nel Mare del Nord, a 115 miglia a nord-est delle Isole Shetland. Si inizierà con lo smontaggio della Brent Delta che verrà ricordato come uno dei primi progetti di smantellamento su larga scala di un campo petrolifero nel Mare del Nord. Si procederà quindi con le altre tre piattaforme – Alpha, Bravo e Charlie – che verranno demolite in seguito.
Come scrive Reuters, dopo una progettazione lunga 10 anni, l’inizio del complesso lavoro è stato rinviato al 2017. Le operazioni di allestimento della nave specializzata che trasporterà le 25.000 tonnellate della piattaforma al porto di Hartlepool, dove sarà smontata, hanno infatti richiesto più tempo del previsto. Una volta arrivata a destinazione, la struttura sarà smontata, rottamata e riciclata. Un lavoro faraonico se si considera che la Brent Delta è alta quanto la Tour Eiffel.
Si tratta senza dubbio di una buona notizia che vede, dopo i lauti guadagni fatti con lo sfruttamento delle piattaforme, le compagnie petrolifere attivarsi per ripulire la loro pesante eredità potenzialmente inquinante ed intervenire a protezione dell’ambiente marino. Ma, come spesso accade in vicende così complesse, la buona notizia rischia di trasformarsi in una soluzione a metà.
Il piano di smantellamento delle piattaforme proposto da Shell
Le piattaforme della stazione petrolifera Brent sono costituite da 3 o 4 gambe in calcestruzzo e sono alte circa 165 metri più o meno come la Torre Eiffel (l’analogia è della stessa Shell), per 18 metri di diametro e si innalzano fino a 25 metri sul livello del mare. Alla base si trovano 64 serbatoi di stoccaggio di cemento rinforzato in acciaio dello spessore di quasi 1 metro che misurano 20 metri di diametro e 60 metri di altezza (più alte della colonna di Nelson a Trafalgar Square) con una capacità di 4 piscine olimpioniche messe assieme. Secondo Shell, nel corso degli anni, 42 serbatoi sono stati utilizzati per lo stoccaggio di petrolio e dopo lo smantellamento della piattaforma rimarranno sui fondali del Mare del Nord sepolti in spesse piramidi di cemento, alla base delle piattaforme. Una soluzione questa a cui Shell è arrivata dopo enormi sforzi messi in campo per sperimentare metodi di ripulitura dei serbatoi senza ottenere risultati incoraggianti. È evidentemente una questione delicata visto che in questi “depositi” di cemento è contenuta una miscela di petrolio, acqua e uno strato di sedimenti, tutti materiali altamente inquinanti. Smontarli e trasportarli è così difficile e rischioso che la Shell ha dovuto rivolgersi alla Nasa per poi comunque decidere di lasciarli in fondo al mare. Oltre alle piattaforme petrolifere nella stazione Brent ci sono 140 pozzi e 103 chilometri di tubature che verranno lasciate dove sono.
Un’eredità per le prossime 40 generazioni di scozzesi
Presentando il suo piano di smantellamento, Shell si è detta orgogliosa delle proposte avanzate, considerate consone ed adeguate in termini economici, di sicurezza e di tutela ambientale. Ma quanto impiegherà a decomporsi tutto quanto sarà lasciato in mare? È la stessa Shell a fornirne una valutazione.
Le gambe di cemento che si trovano sul livello del mare impiegheranno tra i 150 ed i 300 anni per distruggersi. La parte di struttura che si trova invece sotto il livello del mare impiegherà altri 500 anni a cadere a pezzi. E le 64 celle di stoccaggio? Possono richiedere fino a 1000 anni.
In altre parole, se le proposte contenute nel piano di smantellamento proposto da Shell avranno il via libera da parte del governo britannico e dall’Ospar, un organo istituito per salvaguardare l’ambiente del Nord-Atlantico (Convenzione Oslo-Parigi – Convenzione per la tutela dell’ambiente marino dell’Atlantico nord orientale e per la eliminazione sostenibile delle piattaforme petrolifere off-shore in disuso), le piattaforme saranno ancora parte della vita quotidiana degli scozzesi per le prossime 40 generazioni.
La tecnologia non viene più in aiuto?
Curiosamente, l’industria petrolifera è costantemente occupata a raccontare come fiore all’occhiello le sue invenzioni tecnologiche, le innovazioni realizzate nella costante ricerca di soluzioni sempre più pulite e sicure poste ai problemi dell’estrazione del petrolio.
Se fosse vero, questa tecnologia dovrebbe essere adeguata ed impiegata, indipendentemente dal suo costo, anche nello smantellamento delle piattaforme. Come ha dichiarato Mark Ruskell, Scottish Green Councillor e membro del Parlamento scozzese «solo perché queste strutture in acciaio e cemento sono difficili e costose da smantellare e trasportare non significa che Shell debba allontanarsi dalle sue responsabilità. A meno che non vi sia uno schiacciante problema ambientale che costringa a lasciare alcune strutture sul fondo del mare, queste devono essere rimosse completamente. Shell ha il denaro, la forza lavoro e l’ingegno per trovare un modo sicuro per rimuovere le strutture e li esorto a farlo».
Sulla stessa linea il professor Alex Russell della Oil Industry Finance Association ed il professor Peter Strachan della Robert Gordon University, che in una lettera chiedono al governo del Regno Unito e ai governi dei Paesi che si affacciano sul Mare del Nord di contrastare i piani di Shell. I due firmatari ritengono che, così come lungo il corso degli anni ci sono stati profitti derivati dall’attività delle piattaforme e un comune consenso riguardo al fatto che, alla fine di tutto, ci sarebbe stata la rimozione completa delle strutture, Shell avrebbe dovuto per tempo definire piani e risorse finanziarie necessarie a realizzare le operazioni di smantellamento.
Allo stesso tempo, è pur vero che la normativa lascia qualche spiraglio alle compagnie petrolifere ponendo delle “eccezioni” alla regola del “non lasciare traccia”. Per le aziende che riescono a dimostrare che la rimozione completa della struttura sarebbe troppo rischiosa o troppo problematica ci sarebbe infatti la possibilità di evitarne lo smantellamento.
Tempi di riflessione per l’Ospar ed il governo britannico
È evidente come la questione dello smantellamento da parte di Shell delle piattaforme off-shore in disuso nel Mare del Nord riguardi da vicino anche come il governo inglese, l’Ospar, l’Europa ed i governi dei Paesi che si affacciano sullo stesso mare intendano affrontare il tema della salvaguardia dell’Artico.
Shell punta a presentare un piano dettagliato al Ministero dell’energia britannico entro la fine dell’anno. Dopo un periodo di consultazione, il ministro inoltrerà il piano alla commissione Ospar la quale, formata dai rappresentanti di 15 paesi membri (Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Islanda, Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi, Norvegia, Portogallo, Spagna, Svezia, Svizzera, Regno Unito) più l’Unione Europea, avrà una serie di temi e domande da considerare.
La politica di Ospar è stata fin qui chiara ponendo l’obbligo per le compagnie petrolifere di ripristinare il fondo marino nel suo stato originale, senza residui, una volta che la produzione di petrolio è cessata. Ma nel contesto di bassi prezzi del petrolio, i processi decisionali delle compagnie sembrano essere quelli di ridurre i costi con ogni mezzo. Queste due atteggiamenti, queste due linee di lavoro come possono essere declinate caso per caso? È questa la domanda che pongono anche Russell e Strachan. Non è una domanda banale visto che, una volta che Ospar dovesse accettare il piano di Shell, questo precedente frantumerebbe tutta la sua politica sull’eliminazione sostenibile delle piattaforme petrolifere off-shore in disuso. A quel punto, l’eccezione – ossia la possibilità di lasciare residui – potrebbe facilmente diventare la norma.
È un tema di riflessione anche per il governo britannico che deve rispondere anche alle critiche sollevate rispetto alla decisione mal digerita da parte della Scozia di aver scelto Hartlepool – che si trova nella contea inglese di Durham – come sito di rottamazione delle piattaforme. Una soluzione che non ha tenuto conto del fatto di poter realizzare le operazioni di riciclo in Scozia, in un’area più vicina a dove sorgono le piattaforme. È evidente che i dollari dello smantellamento multimiliardario delle piattaforme non saranno gestiti nei territori dove più si sono vissuti i disagi provocati dalle attività di estrazione e dove, di fatto, sono stati creati degli enormi profitti grazie allo sfruttamento del sottosuolo.
Tant’è che la marginalità in cui è stata lasciata Edimburgo in questa faccenda ha riacceso la questione della reale portata della devolution ossia del trasferimento di potere dal centro alla periferia all’interno del Regno Unito. Un passo di riappacificazione con la Scozia potrebbe essere quello di coinvolgere il governo di Edimburgo nella valutazione del piano di Shell perché possa esprimersi su quello che, volenti o nolenti, riguarderà il futuro delle prossime 40 generazioni di scozzesi.
Fonte: Behind Energy
Data: Settembre 2016
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