Trivelle sì, trivelle no. I punti di vista
Abbiamo intervistato Giuseppe Onufrio, direttore esecutivo di Greenpeace Italia, e Alberto Clô, professore di Economia Applicata all’Università di Bologna, sulle motivazioni del perché votare sì o votare no al referendum del 17 aprile sulle trivelle.
Giuseppe Onufrio, perché votare sì
Potrebbe spiegare in poche righe cosa prevede il referendum abrogativo per la concessione delle esplorazioni petrolifere?
Il quesito rimasto riguarda la proroga sine die delle concessioni estrattive entro le 12 miglia dalla costa. Si cancellerebbe in sostanza la possibilità di mantenere le concessioni fino all’esaurimento dei pozzi. Cosa del resto giuridicamente corretta: nessuna concessione dello stato può essere “sine die”, come ha scritto molto bene Giuliano Garavini su Micromega.
Se vincesse il SI quali sarebbero le ripercussioni in termini occupazionali?
Nell’immediato nessuno. In prospettiva, e cioè se alla scadenza della concessione l’attività venisse fermata, si parla di alcune decine di posti. Grazie alla politica anti-rinnovabile del governo ne abbiamo persi 4 mila solo nell’eolico. Se fosse l’occupazione la vera preoccupazione del governo, forse le cose sarebbero andate diversamente.
Sempre se vincesse il SI, quali le implicazioni per l’industria petrolifera italiana? E quali per il settore delle rinnovabili?
Il referendum ha anche un significato politico, sia sul versante del rapporto stato-regioni in questa materia che di indirizzo delle politiche energetiche che, dal governo Monti in poi, si sono orientate a “difendere” gli interessi delle fonti fossili e bloccare l’espansione delle rinnovabili. Questa espansione delle rinnovabili, in Italia e in Europa, ha infatti significato una flessione dei consumi di fonti fossili e dunque anche di emissioni di CO2.
Quali i possibili sviluppi delle politiche energetiche nazionali in funzione del risultato del referendum?
Un governo serio dovrebbe buttare a mare la Strategia Energetica Nazionale – il cui obiettivo più chiaro è quello di proporre l’Italia come “hub del gas” – e riscriverla come una strategia che porti il Paese verso uno scenario energetico basato sul 100% di rinnovabili, dando garanzie e certezze a chi investe. E, dunque, riscriverla col progetto di fare un “hub delle rinnovabili” usando una felice espressione di Francesco Starace, ad di Enel. Il contrario di quello che si è fatto con lo “spalma incentivi” che ha colpito retroattivamente chi aveva investito in rinnovabili.
Da un punto di vista dell’ambiente se vincesse il NO cosa significherebbe in termini di rischi di danni ambientali?
Il rischio è che non si raggiunga il quorum del 50%: tutti i sondaggi mostrano che l’opinione del Paese è chiaramente orientata per il SI. Se invece non si raggiungesse il quorum ma ci fosse una buona partecipazione e una quota predominante di SI, il senso politico non cambierebbe. Il governo non ha voluto fare un decreto per accorpare referendum e amministrative cosa che avrebbe favorito la partecipazione e dunque mira – come del resto anche una parte del PD – a far fallire il quorum. Non è un grande messaggio di democrazia da chi si vanta di fare le primarie per favorire la partecipazione dei cittadini alle decisioni politiche.
Data l’attuale situazione con un’overcapacity di disponibilità di petrolio e una tendenza a ridurre sempre più gli investimenti nelle fonti fossili, ha ancora senso continuare a investire nelle esplorazioni petrolifere nei nostri mari?
La logica degli investimenti petroliferi è anzitutto quella di “mettere le mani” su risorse e solo per questo fatto aumentare il proprio valore di Borsa. Più in generale: nessun economista al mondo ha mai previsto l’andamento del prezzo del petrolio e dunque qualcuno può pensare che se le condizioni cambiano e il barile torna a prezzi elevati c’è un’occasione di profitto. Ma sia chiaro: le risorse petrolifere sotto i nostri mari equivalgono a poche settimane di consumi nazionali. Col barile a 100 dollari sono sempre alcuni miliardi di valore e dunque qualche appetito è comprensibile. Ma come cittadini ce ne viene ben poco: le royalties che si pagano in Italia sono una quota assai misera.
Giuseppe Onufrio
Fisico di formazione, come ricercatore si è occupato di analisi ambientale dei cicli energetici e tecnologici e dell’analisi di politiche e misure di mitigazione dei cambiamenti climatici, per diversi enti e istituzioni pubbliche e private, italiane e non. Ha pubblicato come autore e coautore una cinquantina tra pubblicazioni, articoli e contributi a rapporti scientifici. Dal 1998 al 2001 è stato consigliere d’amministrazione dell’ANPA (Agenzia per la protezione dell’ambiente, oggi ISPRA). Dal 2001 al febbraio 2006 è stato direttore scientifico dell’Istituto Sviluppo Sostenibile Italia, Roma. Dal 2002 al 2009 è stato direttore editoriale della collana “energie” per Franco Muzzio Editore. Dal 2006 Direttore delle Campagne per Greenpeace Italia di cui diventa Direttore Esecutivo nel febbraio 2009.
Alberto Clô, perché votare no
Potrebbe spiegare in poche righe cosa prevede il referendum abrogativo per la concessione delle esplorazioni petrolifere?
Prevede, in sintesi, che l’attività delle piattaforme entro le 12 miglia che sono già operative cessino la loro attività allo scadere delle concessioni impedendo quindi di estrarre le quantità residue, soprattutto di metano.
Se vincesse il SI quali sarebbero le ripercussioni in termini occupazionali?
La perdita di occupazione sarebbe rilevante non solo e tanto per l’interruzione dell’attività delle piattaforme di cui si è detto ma per la cancellazione di molti progetti di investimento che si prevedeva di poter realizzare. Ad oggi si stima che siano stati cancellati investimenti per un ordine di grandezza sui 10 miliardi di euro. In sostanza l’acuirsi delle opposizioni politiche alle attività minerarie (a prescindere dalla loro localizzazione) che deriverebbe dagli esiti del referendum, al di là del suo valore giuridico, sta spingendo le imprese ad investire altrove, magari al di là delle nostre coste dell’Adriatico.
Sempre se vincesse il SI, quali le implicazioni per l’industria petrolifera italiana? E quali per il settore delle rinnovabili?
Per il segmento minerario dell’industria mineraria – come sopra detto – le imprese investirebbero altrove, mentre i contraccolpi negativi si avrebbero soprattutto nel segmento della produzione di beni e servizi strumentali all’attività mineraria, che in Italia conta centinaia di imprese e molte migliaia di occupati. Per quanto riguarda le rinnovabili non si avrebbe alcun efetto sia che vinca il si sia che vinca il no. Chi sostiene che l’estrazione di petrolio o metano si ponga in contrapposizione con le rinnovabili o non sa come stanno le cose o, se lo sa, è in malafede. Un barile di petrolio estratto non sacrifica infatti un’unità di rinnovabili – essendo il petrolio destinato totalmente ai trasporti e alla petrolchimica, ove le rinnovabili sono assenti – mentre un kwh elettrico prodotto con rinnovabili ha per le regole fissate nel mercato elettrico la preferenza su un kwh elettrico prodotto col metano. La produzione interna, quindi, non è alternativa alle rinnovabili ma alle importazioni di petrolio e metano. Argomento sempre trascurato, seppur determinante, dai NO-Triv.
Quali i possibili sviluppi delle politiche energetiche nazionali in funzione del risultato del referendum?
Nessun sviluppo. La crescita delle rinnovabili – moltiplicatesi per 3 volte negli ultimi 15-20 anni mentre il consumo di petrolio si è dimezzato – non risentirebbe in alcun modo, per quanto detto sopra, del fatto che si sfruttino o meno le ampie risorse di idrocarburi disponibili nel nostro paese (con la possibilità di radoppiarne la produzione in pochi anni), mentre dipenderebbe massimamente, come in passato, dal riconoscimento o meno di ulteriori sussidi pagati in bolletta dai consumatori (che pesano annualmente per oltre 12 miliardi di euro). L’unico effetto lo si avrebbe, come detto, nel fatto che aumenterebbe la nostra dipendenza estera da paesi come Russia, Irak, Iran, Libia, Arabia Saudita, etc. preferendo versare immani risorse a questi paesi e alle imprese estere piuttosto che destinarle alla crescita interna e alle nostre imprese.
Da un punto di vista dell’ambiente se vincesse il NO cosa significherebbe in termini di rischi di danni ambientali?
L’estrazione di idrocarburi nel nostro paese è iniziata a metà dell’800. Dal 1861 al 2015 abbiamo estratto 200 milioni di tonnellate di petrolio e 767 miliardi di metri cubi di metano in condizioni sempre di massima sicurezza. Abbiamo le regole più severe al mondo e le capacità tecnologiche, professionali, industriali per operare minimizzando rischi. La storia è la nostra garanzia verso ingiustificati allarmismi. L’attività di perforazione ha conosciuto poi nel recente passato un tracollo passando dai 478.000 metri del 1991 ai 22.000 del 2014, mentre nella sola esplorazione sono passati dai 270.000 del 1982 a zero nel 2014. I politici che oggi si oppongono alle perforazioni dovrebbero spiegare perché un tempo autorizzarono di tutto e di più, vantandosi semmai dei risultati ottenuti.
Data l’attuale situazione con un’overcapacity di disponibilità di petrolio e una tendenza a ridurre sempre più gli investimenti nelle fonti fossili, ha ancora senso continuare a investire nelle esplorazioni petrolifere nei nostri mari?
Il ‘dopo fossili’ richiederà decenni e decenni, e comunque le tecnologie attuali non consentono di pervenire ad una società zero-carbon. Tutti gli scenari di lungo termine, ad iniziare da quello dell’Agenzia di Parigi proiettano al 2040 una percentuale dominante delle fonti fossili (70%-75%), mentre quelle nuove rinnovabili (solare, eolico) non vengono quantificate oltre il 5 per cento. Se si dovessero azzerare gli investimenti nelle fossili il mondo si fermerebbe similmente a quello che accade per i 2,5 miliardi di persone che nel mondo non dispongono di una razione quotidiana di energia per sopravvivere.
Alberto Clô
Nato nel 1947 a Bologna, ove vive. Sposato con due figli. Laureato in Scienze Politiche all’Università di Bologna con Romano Prodi. Dopo essersi specializzato alla Scuola Enrico Mattei di Milano, ha lavorato presso gli Uffici Studi di Eni e Montedison. Successivamente, ha svolto carriera accademica presso le Università di Trento, Modena, Bologna ove, quale Professore Ordinario di Economia Applicata, ha tenuto corsi in “Economia Industriale” ed “Economia dei Servizi Pubblici” (sino al novembre 2014). Direttore Responsabile della Rivista «Energia», fondata col Prof. Romano Prodi. Ha pubblicato numerosi saggi nei campi dell’economia industriale ed economia dell’energia, collaborando a diverse riviste e quotidiani. Ha pubblicato, tra l’altro, i volumi «Economia e politica del petrolio» 2000, Editrice Compositori, Bologna, tradotto in inglese dalla Kluwer Academic Publichers col titolo «Oil Economics and Policy»; “Il rebus energetico” 2008, il Mulino, Bologna; “Si fa presto a dire nucleare” 2010, il Mulino, Bologna; «Riforme elettriche tra efficienza ed equità» ( a cura di, con S. Clô e F. Boffa) 2014, Il Mulino, Bologna. Ministro dell’Industria e del Commercio con l’Estero della Repubblica Italiana nel Governo tecnico presieduto dal Dr. Lamberto Dini e Presidente del Consiglio dei Ministri dell’Industria e dell’Energia dell’Unione Europea nel Primo Semestre 1996 di Presidenza italiana. Per il servizio reso gli è stata conferita dal Presidente della Repubblica, Onorevole Oscar Luigi Scalfaro, l’Onorificenza di Cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica
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